Smart working in Italia: un punto sulla regolamentazione

Con l’attuale stato di emergenza epidemiologica dettato dal coronavirus, il lavoro agile, dicitura con cui la legislazione nazionale ha deciso di tradurre l’inglese Smart Working, è stato ripetutamente preso in considerazione dal Governo come “strumento” di gestione dei rapporti di lavoro subordinato e di mantenimento dell’operatività aziendale. Il Decreto-legge n. 34/2020, specifica le modalità di lavoro agile che i datori di lavoro possono applicare ai rapporti di lavoro, utilizzando la procedura “semplificata” che sarà in uso fino alla fine dello stato di emergenza. Sia nelle aziende che nella pubblica amministrazione si sta diffondendo oramai questa modalità di lavoro subordinato che, sebbene non tutti lo immaginino, è già disciplinata da qualche anno dalla normativa italiana.

La regolamentazione dello smart working in Italia. Secondo il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, lo smart working (o lavoro agile) non costituisce una nuova tipologia contrattuale ma si caratterizza come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro stabilita mediante accordo tra le parti, con lo scopo di aumentare la competitività e agevolare la conciliazione di tempi di vita e di lavoro. Nell’ambito del lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato sono adottate forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi senza rispettare precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro anche mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici.
In regime ordinario, ai fini della regolarità amministrativa e della prova, lo smart working è disciplinato dalla legge 81/2017 secondo cui si può attivare il lavoro agile solo a fronte di un accordo scritto tra le parti che ne disciplini le modalità e alla successiva comunicazione obbligatoria al Ministero.

Al momento invece, lo stato di emergenza prevede una procedura semplificata che resterà in vigore fino al 31 marzo 2021 (termine fissato ad oggi per lo stato di emergenza) secondo quanto previsto dal decreto legge Milleproroghe D.l. 31 dicembre 2020, n. 183 .

In questo periodo è diventato chiaro che lo smart working non è un semplice mutamento della modalità di lavoro ma sta rimodulando il concetto di ruolo e responsabilità e ridefinendo il significato di fiducia e collaborazione, cosa che presupporrà un vero e proprio processo culturale, inteso come evoluzione del modo di pensare il quale richiede un adeguamento dei modelli organizzativi sociali e aziendali, nonché un inquadramento normativo attualizzato e più chiaro, che ne disciplini ancor meglio le modalità e le differenze con altri strumenti simili.

Telelavoro e smart working sono la stessa cosa? Sebbene ci siano elementi comuni, in realtà si tratta di due modalità molto diverse di gestione dei rapporti di lavoro.
Entrambi si realizzano tramite accordo scritto delle parti, lavoratore e datore di lavoro; entrambi necessitano dell’utilizzo delle tecnologie e della connessione internet per il lavoro da remoto; entrambi implicano una limitazione degli spostamenti, che spesso ha un impatto positivo in termini di riduzione dell’inquinamento e quindi sulla tutela dell’ambiente. E allora dov’è la differenza? Lo smart working rende più flessibile per il lavoratore la gestione dello spazio e del tempo di lavoro, nel telelavoro invece il lavoratore ha una postazione fissa che però non è quella dell’azienda.

Il telelavoro pertanto è più rigido e lo è anche per gli orari di lavoro che sono previsti e inquadrati e corrispondono di fatto a quelli adottati dal personale che resta nella sede aziendale. Nello smart working, al contrario, vengono meno questi pilastri del rapporto di lavoro tradizionale (il tempo e lo spazio), in favore della responsabilità del lavoratore sull’obiettivo da raggiungere.

Agevolazione

A decorrere dal 16 novembre 2020 e fino al 31 dicembre 2021 (con possibile estensione fino al 30 giugno 2022), per gli investimenti in beni strumentali, sia materiali sia immateriali, destinati all’organizzazione di forme di lavoro agile, è riconosciuto un credito di imposta nella misura del 15%, nel limite massimo dei costi ammissibili pari a 2 milioni di euro per i beni materiali e 1 milione di euro per i beni immateriali.

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